Nessun altro si portava così poco sul podio. Non aveva con sè nemmeno la bacchetta - veniva lasciata sul leggio del direttore dall'assistente dell'orchestra. E ovviamente non aveva lo spartito - eccetto che in testa. Ma neppure così lo percepiva come bagaglio, come fardello del passato da portarsi al concerto, ma piuttosto come ciò che gli serviva per esercitare il suo miglior talento: la presenza mentale.
Noi studenti imparavamo, mediante esercizi puntuali, che questo paradosso è possibile: che è possibile interiorizzare uno spartito, non come entità inanimata nella memoria ma come struttura vivente. Poteva chiedere a uno di noi di scrivere una sequenza di 12 note casuali sulla lavagna, la frase più desolata che potesse immaginare. A quel punto il processo di umanizzazione cominciava, la ricerca del suo ordine innato. Come dividerla? Come fraseggiarla? Come dirigerla? Dove articolarla? Uno studente dopo l'altro andavamo al pianoforte e tentavamo la sorte. Celibidache poteva essere tagliente e sarcastico se non ci provavi sinceramente; poteva essere un maestro scoraggiante. Poi finalmente qualcuno ci riusciva, e immediatamente questo materiale amorfo e inanimato prendeva vita e forma. E durante la pausa, nell'enorme scalinata dell'Università di Mainz, la scalinata sulla quale il fragile maestro si arrampicava ogni mattina, mi ritrovavo a fischiettare qualcosa con la stessa facilità che se si fosse trattato di Schubert: era la sequenza di 12 note.
La prova inizia. I violoncelli e i contrabbassi suonano la prima frase del Kyrie dalla Messa in Fa Minore di Bruckner; entrano le viole, poi i violini. Qualcosa di enorme, un corpo gigantesco comincia a prendere forma, infinitamente più grande della sequenza di 12 note, ma strutturalmente affine, rotondo e chiuso allo stesso modo. E poi all'improvviso: "No! Questo è un mambo!" Era successo che i violini fossero un po' appannati appena prima dell'entrata del coro. Il volto deluso di Celibidache mi aveva guardato un centinaio di volte dal podio, nello sguardo il dolore per la violazione di una forma ben definita, la ferita di un grande uomo che ha percepito con forza e proiettato mentalmente questa forma.
Questo imperatore solitario e inaccessibile aveva il dono di darsi completamente alle sonorità vive e vibranti. Quest'uomo a cui non importava niente di piacere o di essere amato, che si manteneva distante anche nella risata, quest'uomo era completamente nudo, esposto ed infinitamente vulnerabile sul podio.
E i risultato erano generosi quando tutto andava bene. La musica emanava da una personalità gigantesca, capace di spalancare un grande numero di cancelli chiusi. Il suo ideale Zen di aprire e svuotare se stessi alla musica era frainteso da molti studenti che lo ritenevano uno stato di povertà, anemia e scarsità di sostanza, ma no: questo colosso apriva se stesso - quando funzionava, ovvero due o tre volte su cento concerti - e ci rendeva partecipi di una enorme sorgente di energia.
"Come ti chiami? Fumi? Non fumare mai!" Questa era l'iniziazione per un'infinità di studenti da tutto il mondo quando insegnava - di norma gratuitamente. Poteva dirti anche, "dovrai vivere con me per qualche anno", e ti trovavi così sotto il suo incantesimo. Da quel momento in poi la vita era divisa in giusto e sbagliato. La sua personalità per molti era oppressiva, in questo non era affatto riservato. Gli scettici spesso lo descrivevano come un guru, e per certi aspetti come suoi studenti non potevamo negarlo. Ma può qualcuno con una visione, un vero maestro spirituale, essere riservato?
Le prove con Celibidache non erano mai ipotetiche; ognuna era un'esperienza vera, rappresentava per ogni musicista la maggior sfida possibile per immergersi in ogni pezzo come fosse la prima volta, per essere guidato da ciò che veniva ascoltato e praticato. Tutto o niente: finchè non ci si interrompeva, tutto andava bene. Non erano le piccolo imperfezioni che lo facevano fermare, ma le interruzioni nel flusso della musica, per esempio nel Benedictus della Messa in Fa Minore, se i violini non ascoltavano l'assolo del flauto, se non riprendevano il suo fraseggio.
Celibidache correggeva con rabbia i violini e poi si rivolgeva con gentilezza ai flauti: "Maxi, respira con molta più calma. Siamo soli." Il flautista doveva seguire il flusso organico del suo respiro, la dimensione umana. Siamo soli? Due esseri umani fanno musica insieme, si ascoltano a vicenda, insieme danno forma a un lavoro d'arte, non toccati dalle esigenze esterne di un metronomo. Ma sono soli anche fisicamente: duecento colleghi nell'orchestra e nel coro sono cancellati in questo momento intimo fra il flauto e il direttore. Celibidache poteva ordinare questa intimità ovunque e in qualsiasi momento.
Fu la sua presenza mentale a premiarlo con una vita così lunga, a ridargli vita ed energia per nuove prove e nuovi concerti dopo ogni malattia. Una volta sul podio non c'erano preoccupazioni per la prossima diagnosi, nè timori per la serata imminente - c'era solo il puro momento, che egli non era mai disposto a "sacrificare al futuro" (per citare Horkheimer): il suono qui e ora. L'"istante" mistico. Per Celibidache fare musica era, in un senso del tutto oggettivo e per niente sentimentale, un atto religioso.
Nessun bagaglio, nessuna memoria, nessuna astuzia effimera con le registrazioni su disco - egli non poteva nè voleva darsi tregua in niente: ogni prova era uno stato di purezza e di novità che pretendeva l'intera persona. E' così che egli impersonò l'ideale di direttore, di artista e di essere umano con un radicalismo condiviso da pochi nel 20° secolo: vivere il presente.
(in occasione della morte di Sergiu Celibidache, 14 agosto 1996)
(traduzione italiana di Fabio Barbon, articolo originale pubblicato su pars media gmbh)